Letteratura fantastica.
C’è sempre qualcuno
che sostiene di non leggerla perché, dice, preferisce leggere di
cose reali. Un po’, ma solo un po’, lo invidio o, meglio, invidio
la sua convinzione di sapere con tanta illuministica certezza che
cosa è reale e che cosa non è. Secondo alcuni tutto sarebbe fatto
di pacchetti di energia che vibrano e, non so perché, tutto questo
non mi dà l’impressione di essere molto reale. Non sono reali i
pensieri e, secondo me, la Terra di Mezzo è reale quanto l’art.
2054 c.c., i prodotti finanziari derivati, i numeri irrazionali ed il
complesso di Edipo.
“Fantastico” per me è
ciò che, allo stato attuale delle conoscenze, non è verosimile, o
plausibile, ma non me la sento di negare con assolutezza che, da
qualche parte, anche in questo momento, Achille ed Ettore stiano
ancora rincorrendosi sotto le mura di Troia sotto lo sguardo attento
di Zeus. Schliemann ne sarebbe certo.
Chiarito quello che per
me è “fantastico” (cioè poco verosimile o poco plausibile)
vorrei anche chiarire che, a mio parere, si tratta di letteratura.
Qualcuno (probabilmente è
lo stesso di prima, sempre lui) aggiungerà “di genere” e mi par
di vedere il sorrisetto di compatimento.
“Genere… Embè? ”–
dico io.
Allora: secondo me i
generi sono utili; servono per sapere di che cosa parla un libro e
servono sia a chi scrive sia – e forse anche di più – a chi
legge.
Un genere raggruppa in un
unico insieme un gruppo di testi accomunati da caratteristiche
simili, costruiti secondo tecniche simili e che perseguono un simile
fine poetico.
Volete spiegarmi perché
un gruppo deve necessariamente essere qualitativamente inferiore ad
un altro? Volete dirmi perché scrivere e leggere di dybbuk, elfi e
vulcaniani valga ad identificare scrittore e lettore come un
bambinone malcresciuto?
Il solito Qualcuno –
che ormai sta diventandomi antipatico – sostiene che il “genere”
sia, in quanto tale, qualcosa di simile a un ghetto, una taverna
malfamata, una specie di club privè frequentato da gente poco
raccomandabile.
Peggio per lui, non
intendo perdere tempo a convincerlo. Ci sono storie scritte bene e
storie scritte male: una storia scritta bene dice cose intelligenti
in modo interessante, una storia scritta male no. In mezzo ci sono
variabili pressoché infinite e, come direbbe Forrest Gump, non ho
altro da dire su questa faccenda.
Il problema – il
problema della letteratura fantastica – è che è una letteratura
che prende le distanze.
Il Qualcuno, nella sua
supponente onniscienza, ignora probabilmente che, per vedere bene le
cose, a volte ce se ne deve allontanare.
Prendete un quadro: da
vicino vedete le singole pennellate, da lontano ve lo gustate.
La letteratura fantastica
(almeno quella buona) prende le distanze dalla realtà e, quando si
torna coi piedi per terra, non è escluso che la si capisca meglio,
la realtà.
Certo, a esagerare si
rischia di fare come quell’astronomo che, guardando le stelle,
cadde nel pozzo, ma ad esagerare dall’altra parte si rischia di
guardare il proverbiale dito anziché la luna. Ora: io non ho nulla
contro le dita, ma anche la luna mi pare interessante.
Osservando le cose da
lontano, però, si rischia anche di prendere delle cantonate
clamorose.
Nella lettura fantastica
si parla spesso per maiuscole: il Senso della Vita, l’Immortalità
dell’Anima, la Morte, il Destino del Mondo, l’Esistenza di Dio,
lo Scopo dell’Umanità, l’Origine del Tutto e così via.
Tutti concetti,
semplicemente, troppo grandi da poter essere facilmente colti nel
quotidiano. Bisogna prendere le distanze per capirli meglio e, così
facendo, si rischia di finire drammaticamente fuori strada o –
peggio ancora – di finire su strade così battute e consumate che,
ad ogni passo, rischiate di precipitare in un baratro.
Questo è, secondo me, il
problema, non il “genere”. Se volete metterla in altre parole si
potrebbe dire che è un genere molto difficile (“ma non era
inferiore?” beh, appunto).
“Bisogna scrivere di
ciò che si conosce” capita di sentir dire… ma quando mai. A
parte il fatto che esiste un verbo come “documentarsi” vorrei
dirvi che si mi fate vedere un tale che pensa di “sapere”
qualcosa su una qualunque delle quotidiane relazioni umane, mi
avrete fatto vedere, probabilmente, un tizio maturo per il manicomio…
inutile dirvi che penso sia Qualcuno.
Sappiamo di non sapere,
almeno dai tempi di Socrate, e non ci siamo mossi poi molto. In
questa ignoranza sta la libertà di parlare scrivere e leggere –
con uguale dignità – di cose non verosimili e non plausibili.
Oltretutto, c’è già stato chi voleva possedere la Conoscenza del
Bene e del Male e sappiamo com’è andata a finire (a proposito,
secondo alcuni pure questa sarebbe letteratura fantastica).
Divido la letteratura
fantastica, per comodità, in tre grandi aree, che si sovrappongono e
s’intersecano. Si tratta di generi, se volete, e quindi vale quanto
scritto sopra. Servono, fino a un certo punto, a chi legge e a chi
scrive, ma non ne faccio dei totem.
Sto parlando dell’horror,
della fantasy e della fantascienza.
Avevo detto, però, che
mi sarei limitato a quattro chiacchiere e mi accorgo adesso di essere
appena ad un quarto dell’argomento… beh, forse sono un
chiacchierone.
Per adesso, comunque, mi
fermo qui, riservandomi, se del caso, di riprendere il discorso.
- continua... -
Roberto Rossi "Rubrus"***
Se qualcuno vorrà ancora seguire la nostra chiacchierata, stavo parlando (da utente della narrativa, per carità, solo da utente della narrativa) dei tre generi in cui per comodità divido la letteratura fantastica. Tre aree che si sovrappongono e s’intersecano, tre indicazioni di massima, più che cartelli a senso unico. Se volete, tracce di sentieri nella foresta della fantasia.
Dato che da qualche parte
si deve cominciare, inizierei dall’horror che, (se devo fare il
gioco della torre) è il mio preferito.
Definisco racconto
dell’orrore o del terrore quello che mira a spaventare il lettore
usando elementi narrativi fantastici.
La Radcliffe distingueva
i racconti horror in due categorie: quelli che annichiliscono il
lettore (e li chiamava racconti dell’orrore) e quelli nei quali fa
capolino il meraviglioso (che chiamava racconti del terrore);
spaventoso sì, ma pur sempre mix di wonder and terror (come diceva
Leiber) o cosmic horror (come si esprimeva Lovecraft).
Anche se io userò i
termini indifferentemente, questa distinzione, secondo me, è valida
– anche se con tutti i se e i ma che si devono usare quando si
maneggiano queste categorie.
Un racconto come “Il
gatto nero” fa venire i brividi al lettore (a quasi duecento anni
di distanza, ci riesce benissimo) e lì si ferma (anzi, in teoria
l’opzione soprannaturale neppure sarebbe necessaria; l’io
narrante ci dà una spiegazione razionale, per quanto bizzarra… ma
nessuno gli crede, no?).
Un racconto come “La
maschera di Innsmouth”, di Lovecraft, con le sue agghiaccianti
descrizioni di mostruosità e mutazioni, si chiude con una frase che,
in sé, racchiude l’essenza stessa del desiderio dell’Oltre,
succeda quel che succeda.
Già, ma perché uno
scrive e legge di questa roba?. Anzi, visto che stiamo facendo
quattro chiacchiere, perché voi scrivete e leggete di questa
roba?.
Vi dirò come la penso:
parafrasando John Keating, il prof. de “L’attimo fuggente” (lui
parlava di poesia, a dire il vero) noi non scriviamo e leggiamo
racconti (anche racconti dell’orrore, sì) perché è carino.
Noi scriviamo e leggiamo racconti horror perché siamo cibo per i
vermi.
Sì discute da sempre se
la rappresentazione di una realtà (e non solo narrativa) abbia
funzione catartica o mimetica. In parole povere: uno che esce da un
cinema dopo aver visto l’ultima prodezza di Rambo VI (uscirà,
uscirà…) prova disgusto per la guerra oppure segretamente spera di
poter prendere a mazzate il primo disgraziato che gli graffia il
paraurti?.
La domanda non avrà mai
risposta, per fortuna, né, meno che mai, una risposta univoca per
tutti e valevole in tutte circostanze.
La spiegazione che mi
sono dato io e che, secondo me, ha una passabile percentuale di
veridicità, è che ogni buon racconto horror (e forse non solo) è
una forma di esorcismo.
Il buon racconto horror
ci mette di fronte ai nostri demoni e ci dice “e adesso cosa fai?”
Il demone ultimo – beh,
che sarà l’ultimo ad essere sconfitto lo dice anche qualcun altro
– è la Signora con la Falce e, in definitiva, si tratta di uno dei
due, soli, veri, grandi temi della narrativa (l’altro è l’amore,
per capirci).
Restringendo la visuale
e/o abbassandola a un livello commerciale è facile notare come
esistano decine di racconti dell’orrore per ogni forma di fobia.
Abbiamo racconti, film e romanzi che parlano d’insetti, cani,
ascensori, automobili, vicini di casa, specchi, uccelli, insegnanti,
ecc. (si potrebbe continuare per ore).
Non solo.
In tantissimi racconti
horror, soprattutto in quelli più risalenti, è presente il tema
della Punizione.
Tanto per limitarmi a due
esempi: quanti coniugi traditi tornano dalla tomba per vendicarsi del
fedifrago, quante maledizioni colpiscono gl’incauti ladri?. E
andate pure dai vostri vecchi (spero possiate farlo) e fatevi
raccontare le favole che venivano narrate ancora solo agl’inizi del
secolo scorso. Lo schema, magari sotterraneo, è spesso rappresentato
dal binomio: trasgressione (anche minima) e punizione. Beh, se oggi
sentiste qualcuno raccontare simili storie probabilmente chiamereste
non solo il Telefono Azzurro, ma anche lo psicologo e i carabinieri.
Oggi simili racconti sono
più rari, segno del mutare – senza dubbio alcuno – delle
tecniche educative. A mio parere, però, ciò è anche il sintomo di
una diversa percezione del Male (o del male) o, se volete leggerla in
un’accezione religiosa, del Peccato, da parte della nostra società.
Come si sa, infatti, la più grande astuzia del diavolo ecc.
Lo schema però spesso
rimane, magari adattato ai tempi, mascherato, raffinato, ma rimane.
Oltre ad una funzione
“educativa” (nel senso spiegato sopra) lo schema colpa –
punizione è anche assolutorio.
Ad essere punito in modi
raccapriccianti è il cattivo e, detto tra noi, non se la meritava,
forse, una simile fine con tanti saluti ai diritti umani? Insomma,
lui è il Cattivo e noi, automaticamente e necessariamente, i buoni.
Nelle arene delle antichità venivano sbranati e sgozzati i
condannati, noi oggi lo facciamo in effige, ma penso che il
meccanismo psicologico sia ancora lo stesso.
Il racconto dell’orrore
o del terrore però è un esorcismo, secondo me, in un senso più
profondo e più ampio, che va ben oltre la funzione morale o
assolutoria di cui ho detto sopra.
A un livello appena più
profondo si scorge che, ad infliggere sofferenze è un mostro… noi…
oh, noi non lo faremo mai, non è vero? Anzi, noi non saremo neppure
capaci di pensarlo, meno che mai di scriverlo. Qualcun altro lo ha
fatto al posto nostro, noi magari ci limitiamo a leggerlo, però è
un peccato veniale. Del resto, per pensare e scrivere queste cose si
deve essere un po’ matti e (ma diciamolo sottovoce) un po’
perversi. La diffidenza sociale verso chi legge horror, del resto, è
superata solo dalla diffidenza verso chi scrive horror.
A un livello ancora più
profondo, però, si può notare come simili angosce e nefandezze
stiano lì, sulla carta (o sullo schermo del computer). Ci basta
chiudere il libro per dominarle. Meglio ancora, ci basta andare
all’ultima pagina per sapere come andrà a finire e rovinare così
la suspence ed il climax che tanta importanza hanno nel racconto del
terrore. Insomma: possiamo dominare i mostri. Possiamo imprigionarli
non dietro sigilli, incantesimi e grotte tenebrose nelle profondità
della terra, ma dietro lettere e parole e, una volta rinchiusi lì
dentro, possiamo sconfiggerli con un semplice gesto della mano.
A questo punto vorrei
chiedervi una cosa. Sì, proprio a voi che state leggendo. Avete
visto come siano pochi i romanzi horror nelle librerie?
Ciò, a mio giudizio,
dipende da due fattori intrinseci e da due fattori estrinseci che,
come al solito, interagiscono.
Comincio da quelli
intrinseci.
Il racconto horror non
tollera, secondo me, due cose: la serialità e l’eccesso di
fantastico.
Non tollera l’eccesso
di fantastico perché scopo dell’horror è spaventare e,
francamente, ci vuole del bello e del buono e, soprattutto, una bella
dose d’immaginazione per aver timore di cose lontanissime dalla
vita di tutti i giorni. Il Grande Cthulhu terrorizza le menti più
sensibili (scrittori, poeti, musicisti, pittori), ma, per buona parte
del racconto di Lovecraft, se ne sta rintanato nella morta R’lyeh,
città da incubo dalle prospettive distorte sepolta al crocevia di
più dimensioni. Se avesse passeggiato per New York avrebbe
probabilmente incontrato King Kong o Godzilla ed avremmo avuto un
racconto comico, o fantasy, o di fantascienza, non un racconto del
terrore.
Il racconto horror,
inoltre, non tollera la serialità perché ci si abitua a tutto.
Questo è, per gli scrittori horror, un problema drammatico, ma non
c’è tempo di analizzarlo. Mi limito a notare che il Conte Dracula
appare all’inizio del romanzo, dove domina la scena, ma poi
praticamente scompare, tranne in un’occasione o forse due (anche se
abbiamo i brividi intuendo che cosa stia facendo nell’ombra che gli
è madre)… mica se ne sta tutto il tempo sulla scena a palpeggiare
fanciulle indecise se dargliela o no. Insomma: mettete un mostro in
un libro e avrete forse un romanzo horror. Mettetene una dozzina e
avrete la Casa delle Streghe al Luna Park. Non è la stessa cosa.
A questo punto vedrete
come molti dei romanzi cosiddetti horror (a cominciare da quelli
della sig.ra Meyer, ma, seppure migliori, potrei citare quelli della
Hamilton) sovrabbondano in tutt’e due queste caratteristiche e
quindi con l’horror vero e proprio hanno poco a che spartire.
Ci sono poi, secondo me,
due cause estrinseche del declino del genere. Più precisamente,
ragioni di marketing.
La prima è che la paura
è spesso politicamente scorretta ed è come se gli editori fossero
preoccupati di turbare la delicata psiche dei loro lettori con
spauracchi immaginari (però legioni di serial killer se ne stanno
acquattati nelle librerie… mah) oppure se temessero di essere
accomunati a quella gentaglia poco raccomandabile che legge e scrive
horror.
La seconda è che la
narrativa moderna appare malata di gigantismo. Tomi e tomi di pagine
e pagine che spesso ricordano i temini delle elementari (avete
presente quando dovevate scrivere almeno quattro facciate protocollo
e dopo due avevate finito il carburante?). La ragione è semplice: se
un libro è “tanto” è anche giusto che costi tanto, no?
Salvo eccezioni, però,
di solito lo scrittore horror non è un maratoneta, ma uno sprinter;
al contrario di quello fantasy o di avventura, per esempio.
Dopo il boom degli anni
’80, insomma, secondo me il genere è in declino o in stasi.
Non mi preoccupo più di
tanto, comunque.
I mostri, si sa, non
muoiono mai.
- continua... -
Roberto Rossi "Rubrus"
****
Non c’è due senza tre
e, se qualcuno vorrà ancora starmi dietro vorrei parlare di
fantascienza.
Una noticina personale
(non vogliatemene): venni in contatto con la fantascienza scendendo,
come è lecito attendersi in un racconto fantastico, in una vecchia
cantina dove i libri (erano per lo più edizioni Urania) erano
ammassati alla rinfusa. Era la fine degli anni’70 / primi ’80 e
oggi molti di quei romanzi, allora già un po’datati, sono vintage
in un modo delizioso e quasi struggente. C’era anche una raccolta
di racconti di Poe, un’altra legata alla serie “Alfred Hitchcock
presenta” ed una vecchia, muffosa edizione di “Dracula” (quei
tre libri, alla lunga, avrebbero influenzato il mio immaginario molto
più degli altri). Dell’horror, però, ho parlato sopra e adesso
tocca alla fantascienza.
FantaSCIENZA appunto,
senza la bacchetta magica delle fate.
Sappiamo tutti quando è
nata; alla fine dell’800, con l’illuminazione pubblica e il ballo
Excelsior.
Certo, anche prima (per
esempio l’isola volante di Laputa, di cui parla Jonathan Swift) è
possibile trovare elementi fantascientifici nelle opere di narrativa;
lo stesso Frankenstein può essere considerato un romanzo anche
di fantascienza, ma è – a mio parere – solo con
l’industrializzazione di massa delle società occidentali che il
genere acquista la fisionomia che gli è propria.
“Che cosa succederà
al mondo dopo che io non ci sarò più?” è la domanda che sta
dietro ad ogni racconto di fantascienza (come a molti altri,
ovviamente), ma, a mio giudizio, ciò che caratterizza la
fantascienza è utilizzare la scienza e la tecnologia per rispondere.
Siamo nell’era del
positivismo, del colonialismo e delle scoperte geografiche. Non a
caso Doyle, il papà di Sherlock Holmes, scrisse più di un racconto
di fantascienza anticipando per esempio, e non di poco, Micheal
Chrichton.
A me piace pensare che,
sin dall’inizio, il genere presenti la doppia faccia che da sempre
gli è propria.
Abbiamo infatti le utopie
– che denotano una fiducia pressoché illimitata nel progresso
dell’uomo – e le distopie – che invece vedono abbastanza nero.
Abbiamo Verne che ci
descrive in termini piuttosto trionfalistici la conquista della Luna
e degli abissi. Anche quando ci parla di eroi “maledetti”, come
Nemo (non il pesciolino, il capitano), la maledizione sta nel fatto
che questi uomini sono troppo avanti e che il mondo non è ancora
pronto per le nuove scoperte, non nell’intrinseca perniciosità
delle stesse; non viene mai messo in dubbio che il progresso della
scienza e della tecnologia sia – in sé e per sé –
fondamentalmente “buono”.
Accanto a lui, però,
abbiamo Wells che qualche dubbio se lo pone. L’isola del Dottor
Moreau non è esattamente l’Eden e, anche se nel frattempo ci
saranno millenni di progresso, già sappiamo che intorno all’anno
800.000 d.c. i nostri eredi non saranno gli apollinei Eloi (più o
meno bestie da macello), ma i dionisiaci, cannibali Morlock. Insomma:
non solo l’uomo non potrebbe usare bene il potere conferitogli
dalla scienza, ma la stessa scienza, forse, non è, sempre e
comunque, bene.
Facciamo un salto di
qualche anno e accenniamo ad Asimov. La ragione, la scienza
(positronica o psicostoria che sia) possono salvare gli uomini dalla
barbarie in cui periodicamente e necessariamente ricadono. Gli stessi
androidi, nelle mani di Dick, hanno tutt’altro ruolo e scopo, fino
a mettere in crisi, non attraverso una banale conquista, ma grazie
alla loro semplice, perturbante esistenza, il concetto di identità e
di umanità (dietro c’è, ancora una volta, il personaggio della
Shelley). Se facciamo un altro salto (mica abbiamo la macchina del
tempo per niente, no?) atterriamo sul pianeta Cyperpunk e non è un
bel vedere.
Ho diviso, molto
grossolanamente, tra utopie e distopie.
Adesso mi va di fare
un’altra divisione. Ci sono storie che si occupano soprattutto di
come funzionano le macchine ed altre che si occupano di come
funzionano gli uomini. Dico subito che non ho grande simpatia per le
prime. Se proprio ne avessi voglia (ahahaha) leggerei un libretto di
istruzioni di qualche aggeggio in vendita oggidì (non lo faccio mai,
appartengo alla scuola di quelli che immaginano grosso modo a che
cosa possa servire un tasto, lo schiacciano e vedono che cosa succede
e confesso che qualunque oggetto un po’ più complesso di un
telecomando mi mette in crisi) però stiamo parlando di fantascienza
e quindi è necessario che, dietro o sotto il racconto ci stia una
certa dose di verosimiglianza scientifica. Per questa ragione ho
qualche difficoltà a considerare per esempio “Cronache marziane”
un libro di fantascienza. Il grande Bradbury ci dice che le astronavi
vanno su Marte, punto e basta. Marte, poi, è spesso simile al natio
Illinois. Anche avendo le conoscenze degli anni ’50 è un po’
dura da credere… insomma, stiamo più dalle parti della fantasy, ma
in fondo chi se ne importa delle etichette? Un romanzo
fantascientifico, invece, è senza dubbio il grande, distopico
Fahrenheit 451, così come lo è Brave New World di Huxeley (e non
dimentichiamo “1984”). Sono libri insomma in cui si parla di una
possibile, scientificamente sostenibile scoperta o sviluppo
scientifico o tecnologico e si immagina che influsso potrebbe avere
quella novità sulla società e sull’individuo. Per me la
fantascienza è questo.
Bene, ora che vi ho
seccato abbastanza con questa carrellata assolutamente insufficiente
e non rappresentativa (tranne forse per il sottoscritto) vorrei farvi
una domanda (sperando di non disturbare chi si è già addormentato):
quale tra questi libri sentite più vicino al vostro modo di vedere
le cose?
Molto probabilmente, non
pochi di voi sentiranno più affini al proprio modo di sentire i
romanzi in cui viene descritta un’utopia negativa, che sia il mondo
distrutto dalla guerra nucleare, devastato dall’inquinamento,
oppresso dalla dittatura mediatica, disumanizzato dalla genetica e
dalla robotica.
Non è un caso e questa
disillusione nasce, a mio parere, da due ordini di motivi.
Tornate un attimo con me
in quella cantina.
Siamo alla fine degli
anni ’70, il muro di Berlino è bello saldo, i reduci del Vietnam
girano smarriti per le strade americane e coalizioni ondivaghe di
pluripartiti governano il Bel Paese (beh… da questo punto di vista
non è cambiato poi tanto).
Il duemila è il futuro,
gente; un’epoca ancora abbastanza lontana da poter credere che le
auto in quei giorni (giorni che noi vedremo) voleranno tra i
grattacieli anziché intasare le strade.
Tornate ai nostri giorni,
adesso e chiedetevi: tra venti, trent’anni scienza e tecnologia
renderanno il mondo migliore?
La risposta, come dicevo
sopra, è probabilmente no e credo che sia determinata da un fattore
anagrafico ed un fattore sociale.
Gli anni ti portano via i
sogni, le illusioni, le utopie, certo, ma anche, stando ad un livello
molto più terra terra, la capacità di padroneggiare la tecnologia.
Ho guardato degli
adolescenti e sono giunto alla conclusione che l’homo sapiens
stia sviluppando una nuova forma di pollice opponibile… perché
come altrimenti farebbero a smanettare sul cellulare con quella
velocità?.
Prendete un ragazzino e
dategli un computer (o un qualunque oggetto a medio / alta
tecnologia). Garantito che, in capo a pochi minuti, capirete che cosa
devono aver provato gl’indio quando hanno visto le prime armi da
fuoco.
La nostra è una società
tendenzialmente vecchia e, come tale, la massa della popolazione non
ha con la tecnologia quella dimestichezza che contraddistingue le
nuove generazioni, quindi, per il grande pubblico, l’appeal della
fantascienza svanisce. Non solo: di solito si teme ciò che non si
comprende. Di qui una certa tendenza a vedere nero.
Ma ancora non basta.
Vecchi o giovani che
siamo penso che, come società – e spesso a torto, c’è molto di
irrazionale in questo – oggi non crediamo più nella scienza e
nella tecnologia come strumenti per creare un futuro migliore.
Crediamo negli Ipad, nei social network e nei cellulari, ma non è la
stessa cosa. Non ardiamo più dal desiderio di andare a scovare gli
alieni in qualche angolo del cosmo (nemmeno per conquistarli), ma
aspettiamo che, magari nel 2012, arrivino per toglierci dai guai o al
massimo per far piazza pulita di tutto il caos che abbiamo combinato.
Il lettore contemporaneo
di fantascienza potrebbe dire “c’era una volta il futuro” e
dipinge, come per esorcizzarli, cupi scenari (ho già detto che
spesso la letteratura fantastica è una forma di esorcismo? Oh beh,
pazienza).
Credo che questa
considerazione valga per tutti i tipi di fantascienza, da quelli,
tradizionali, in cui compare e predomina il tema del viaggio, nel
tempo e nello spazio, a quelli in cui si descrive la nostra società
così come potrebbe risultare a seguito di una evoluzione (o
involuzione) scientifica o tecnologica: ingegneria genetica, scoperte
atomiche, scoperte dell’ambito della psicologia della
parapsicologia, delle scienze sociali. Credo che valga, altresì, per
i racconti ucronici, in cui si domanda “che cosa sarebbe successo
se…” (esempio più frequente: se i nazisti avessero vinto la
guerra), per quelli steampunk, cyberpunk, per la fantascienza
apocalittica o postapocalittica, fantapolitica ecc.
A questo punto, entrate
in una libreria, magari una di quelle grandi e fate una prova. I
romanzi di fantascienza sono pochini, forse ancor meno di quelli
dell’orrore. Tutti e due, assieme, non raggiungono la quantità dei
romanzi fantasy.
Insomma: anche la
fantascienza è un genere letterario appannato e la causa principale
è, a mio parere, la sfiducia nel domani.
A pensarci bene è una
considerazione estremamente triste, il punto finale di una parabola
cominciata dopo la seconda guerra mondiale quando a tutti è stato
chiaro che cosa la scienza poteva provocare.
Ormai non capiamo più il
progresso, non ce ne fidiamo più, abbiamo trascurato le grandi
teorie, le grandi scoperte, le grandi invenzioni e ci siamo rifugiati
nelle “apps” (all’inizio non sapevo se ero un povero scemo o se
la sintonia della TV aveva problemi, poi, dopo due giorni, ho capito
di cosa stava parlando la pubblicità).
La cosa più triste,
però, è che la colpa di tutto questo non è della scienza… ma non
divaghiamo.
Eppure di cose da
scoprire, da esplorare ce ne sarebbero. Infiniti universi ciascuno
dei quali, forse, infinito.
Noi però, più che di
razzi ad annichilazione, preferiamo, come grande pubblico, sentir
parlare di draghi, orchi ecc… ma questa è un’altra storia.
Quella della fantasy di
cui parlerò, magari, la prossima volta.
- continua... -
Roberto Rossi "Rubrus"
****
Magari i miei cinque
lettori si aspettano che chiuda il discorso che avevo iniziato un po’
di tempo fa
circa la narrativa
fantastica. Erano quattro chiacchiere e quattro, insomma, devono
essere.
Beh, avevo detto che
avrei parlato del genere fantasy – sempre da utente della
narrativa, per carità, questo non è un “saggio” ma qualche
elucubrazione di un fruitore del fantasy.
Per onestà intellettuale
devo dire di essermi avvicinato tardi al genere e di averlo
frequentato abbastanza poco.
Personalmente, definisco
fantasy quel genere di narrativa fantastica in cui predominano, nella
costruzione della trama, elementi tratti da mitologie esistenti o
inventate di sana pianta dall’autore.
In effetti, il fantasy è,
tra i tre generi in cui si può sommariamente dividere la letteratura
fantastica (e, sia ben chiaro, senza essere troppo categorici: sono
indicazioni di massima e devono essere, secondo me, funzionali alla
comprensione, non viceversa) quello più avulso dalla realtà.
L’horror si svolge in
ambientazioni realistiche e contemporanee – anzi, la sua forza
spesso deriva proprio da questo.
La fantascienza esige e
pretende verosimiglianza scientifica.
Il fantasy della
inverosimiglianza, della improbabilità, invece, fa la sua bandiera.
Mi pare estremamente improbabile (anche non mi sento di escluderlo
del tutto) che ci sia da qualche parte un trono di Aquilonia,
un’isola di Melnibonè o una città di nome Lankhmar o Ankh –
Morpork. Del realismo il fantasy se ne infischia, anzi, utilizza il
fascino dell’impossibile proprio come le sirene usavano il loro
canto.
Non è forse un caso,
però, che a questa conclamata inverosimiglianza faccia spesso da
contrappeso un’estrema analiticità e minuzia nella descrizione di
mondi fantastici. Guardate come sono accurate le piantine che
accompagnano i libri fantasy e la precisione, quasi da antropologo,
da storico o da entomologo, con cui si descrivono creature
immaginarie.
Credo che ciò dipenda da
due ragioni.
Il primo è, credo,
un’insopprimibile esigenza di coerenza della realtà. I mondi
fantasy che mi è capitato d’incontrare sono a volte molto diversi
tra loro, ma quasi tutti hanno una struttura interna molto solida. Il
lettore fantasy non ha nessuna difficoltà ad immaginarsi una
lucertola volante che sputi fuoco, ma esige che quel fuoco bruci.
Anzi, di più, alle volte sente il bisogno di specificare che quel
fuoco è, in realtà, un veleno che s’infiamma al contatto con
l’aria (come di draghi descritti da Moorcock) o che il nostro
lucertolone non potrebbe volare (si suppone che la gravità del mondo
fantastico in esame sia come la nostra, altrimenti dame e cavalieri
ballonzolerebbero come astronauti), ma vola perché le forze del Caos
che s’infiltrano dal multiverso gli forniscono l’energia
necessaria.
Il secondo motivo, a mio
parere, è più sottile e coinvolge, credo, l’essenza stessa della
narrativa fantasy. All’inizio della nostra chiacchierata dicevo
che, a mio giudizio, la narrativa fantastica si occupa spesso di
assoluti: il Bene, il Male, la Vita, la Morte ecc. Reputo che, nel
fantasy, questo emerga con particolare evidenza. L’esempio più
noto è Tolkien. Sauron è il Male e non è (per interpretazione
autentica dello stesso autore) Hitler in versione fantastica –
casomai il buon vecchio Lucifero. Il Male dev’essere sconfitto e
poche storie, senza gl’infingimenti e i tentennamenti della vita
reale. In Brooks è più o meno la stessa storia, almeno per quello
che ho letto. Questa nettezza di forme e contenuti si trova però (a
mio parere) anche in autori assai diversi. R.E Howard col suo Conan
si pone il dilemma barbarie / civiltà (e tutte le sue simpatie vanno
alla prima). Il Cimmero affronta i problemi della vita (che hanno
l’aspetto di mostri e/o regine sessualmente depravate) e li
sbaraglia a mazzate (beh, coraggio, chi non ha mai sognato di farlo,
almeno una volta?). Nella pessimistica saga di Elric, Moorcock
rovescia gli stilemi del genere per dirci che (ed è esattamente il
contrario di quello che sostiene Tolkien) alla fine è il Caos
(leggasi pure entropia) a vincere e la fine coincide con la morte
dell’universo… salvo poi ricominciare tutto nell’universo
successivo. Nei romanzi di Leiber (un autore che preferisco come
scrittore horror o SF, peraltro) compaiono, e senza maschera, gli
archetipi della psicologia junghiana. Uno dei personaggi più
riusciti del Mondo Disco creato da Pratchett è la Morte stessa, che
agisce, filosofeggia e ci fa ridere allo stesso tempo.
Insomma: nel fantasy
abbiamo a che fare con gli Assoluti, gl’Interrogativi Ultimi, i
Grandi Temi senza le difficoltà cognitive, interpretative,
applicative che incontriamo nella vita di tutti i giorni.
Ecco perché, accanto
alla pressoché assoluta improbabilità, i migliori libri fantasy
(almeno, quelli che io giudico tali) sono intrisi di qualcosa molto
simile alla logica formale (Lewis Carrol insegnava matematica).
A differenza del mondo
reale, il mondo fantasy ha un senso o, quantomeno la possibilità di
un senso, caratteristica che, nel mondo reale, non sempre ci è dato
rinvenire. Ecco perché i romanzi fantasy hanno una struttura
coerente. Esprimono spesso il bisogno di un senso, di un significato
che il lettore non fatica a cogliere subito sotto la superficie delle
cose (duelli, battaglie ecc)
L’accusa che si muove
al fantasy (e in generale alla letteratura fantastica) è di
fomentare l’escapismo, la fuga dalla realtà. È un’accusa quasi
sempre vera, ma che non si cura di una domanda fondamentale: fuga sì,
ma per andare dove? Probabilmente in un mondo dove il bene vince e il
male perde, un mondo molto vicino – se non proprio lo stesso – al
Paese della Felicità dove, alla fine delle favole che ci
raccontavano da bambini, vanno a vivere l’eroina ed il Principe
Azzurro.
Credo che lo stesso
discorso valga, anche se i termini della struttura sono invertiti,
nei romanzi fantasy dove il meraviglioso irrompe nel quotidiano. Qui,
a differenza degli altri, non siamo noi ad essere trasportati in un
contesto fantastico, ma è il mondo fantastico ad essere –
scopriamo – tutto intorno a noi. American Gods, di Gaiman, è un
buon esempio. Stringi stringi, il tema è sempre quello: perché
succedono le cose? Qual è il senso di questo o di quello – o,
addirittura, di tutto?
Aggiungo che il fantasy è
anche un buon banco di prova per verificare la fondatezza di un’
affermazione di King (il saggio – quello sì che è un saggio – è
“Danse Macabre” Ed. Theoria): tutta la letteratura fantastica si
basa sul concetto di potere (anche l’horror e la fantascienza);
quella mediocre tratta di chi il potere ce l’ha e lo usa, quella di
qualità superiore di chi il potere non ce l’ha, ma lo scopre
oppure di chi lo perde, oppure di chi paga un prezzo salatissimo per
averlo.
Ecco perché, a mio
parere giustamente, le storie di sword and sorcery (alla Conan) sono
di solito qualitativamente inferiori a quelle di epic fantasy (alla
Tokien) … a proposito, alla faccia di chi ha in uggia le
distinzioni, queste sono categorie descrittive usate dagli
appassionati di fantasy e, francamente, sembrano eccessive anche a me
– ma forse proprio appassionato di fantasy non sono.
Adesso facciamo il solito
giro in libreria… sono tanti i romanzi fantasy, vero? Secondo me
sono molti di più di quelli di fantascienza e dell’orrore ed è
troppo facile liquidare il fenomeno come infantilismo editoriale e/o
del lettore.
Io credo che le ragioni
siano almeno due.
La prima è commerciale.
Il Fantasy adora le saghe, i cicli interminabili. Il contrario di
quel che succede, o dovrebbe succedere con l’horror che si sta
“fantasyzzando” – i libri della Hamilton, con vampiri, zombi,
stregoni inseriti nella nostra realtà e che convivono con gli umani
sono un ottimo esempio (anche qui mi sono fermato ad un libro solo,
però).
La seconda è legata da
un lato al bisogno di senso ed alla crescente sfiducia nella
tecnologia. Come dicevo quando palavo della fantascienza, ormai non
capiamo più il progresso, non ce ne fidiamo più, abbiamo trascurato
le grandi teorie, le grandi scoperte, le grandi invenzioni e ci siamo
rifugiati nelle “apps” per il telefonino… ma non è la stessa
cosa, vero?
Vado anche più in là.
Abbiamo ancora bisogno di
credere che, dietro l’angolo, ci sia la possibilità di un domani
migliore dell’oggi e, cadute molte certezze (scienza, politica,
religione ecc.), rimane, magari senza che ce ne accorgiamo, la
bacchetta delle fate. Letteralmente e letterariamente.
Chesterton sosteneva che,
quando gli uomini smettono di credere in Dio cominciano a credere a
qualunque cosa e non escludo che dietro il boom del genere da
trent’anni a questa parte possa esserci anche questo fattore. Un
fattore magari poco influente, probabilmente minimale, ma non mi
sento di escluderlo del tutto.
**
Beh, la chiacchierata è
finita.
Vorrei “rubare” però
il congedo ad uno dei miei scrittori preferiti, Stephen King e, più
specificamente, da quello che, tra i suoi libri, è forse il mio
preferito: “It”.
Parto dal presupposto che
non sappiamo molto di quello che abbiamo intorno e neppure di quello
che abbiamo dentro.
A parer mio – scusate
se parlo di me, ho cercato di evitarlo, ma “Parliamo tanto di me”
potrebbe essere anche lo slogan del blogger – sappiamo tutt’al
più di non sapere.
Spesso ci vuole, per dire
che qualcosa non esiste, la stessa dose di fede che serve per dire
che qualcosa esiste.
Parlare di fede, in tutte
le sue accezioni, è però eccessivo, soprattutto per una
chiacchierata come questa, che limita il proprio oggetto alla
narrativa fantastica.
Non mi sento di escludere
che la vasta area dell’ignoto possa contenere Qualcosa. Senz’altro
mi piace crederlo.
Non possiamo parlarne e
forse, razionalmente, non dovremmo, dato che non sappiamo granché.
Ciò nondimeno osiamo
raccontarne, senza rimanere bloccati nelle nostre piccolezze e
miserie quotidiane. Ci scriviamo sopra, come se non bastasse, poesie
racconti e romanzi.
Credo che sia una forma
di magia, molto più potente di qualunque paletto di frassino, di
qualunque motore ad annichilazione, di qualunque bacchetta delle
fate.
E, come dice Stephen
King, il romanzesco è la verità dentro la bugia.
Roberto Rossi "Rubrus"
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